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A Lartigue, dobbiamo il piacere del paradosso.

È un realista che fotografa miracoli; un dilettante per professione; un istagramer senza internet. Di mestiere, voleva fare il pittore. Lartigue sfugge a un inquadramento critico, perché la sua opera ricerca un’identità essenzialmente di carattere personale. Ha voluto costruire la sua felicità attraverso il racconto. L’idea alla base è semplice: la fotografia, il disegno e la scrittura sono strumenti per impedire alla vita di essere dimenticata. Oggi torna attuale, nella misura in cui l’arte avverte l’urgenza di definire l’umano rispetto all’egemonia della tecnica.

Letteralmente, Lartigue ha fatto quello che facciamo tutti, solo centoventi anni prima. Si procura un apparecchio fotografico – abbastanza compatto da poter essere trasportato senza eccesso di pena – viaggia, fa sport, si sposa – secondo la disponibilità dei suoi generosi mezzi –  e prende nota di quanto non vuole che si perda.

Una delle sue macchine – che iscrive per modello e marca all’inizio di ogni album – si chiama appunto Block-Notes. Pioniere degli obiettivi e dei tempi di scatto ultra rapidi, ha liberato la fotografia dall’incubo della posa. La sua ossessione è stata catturare il movimento. Da bambino, inventa il gioco dell’occhio-trappola: l’idea di fermare il divenire con un battito di ciglia. Lartigue accetta il mondo come uno scherzo e non vuole essere preso sul serio, per questo investe la sua fortuna in inchiostro, pennelli e lastre di negativo.  Avrebbe potuto utilizzare il denaro per accumularne altro. Ha sottratto la materia grezza della circostanza alla legge del tempo.

Il suo archivio consiste in 126 album, di formato 52×36, che partono dal 1880, con una sezione dedicata alle immagini della sua famiglia, e finiscono con la sua morte nel 1986.  Considerando i suoi soggetti abituali – aerei, automobili, il tennis, le signore eleganti di Parigi, la famiglia e gli amici – Lartigue, fotograficamente parlando, ha ignorato l’esistenza di un pubblico.

In Lartigue, l’istante catturato dallo scatto deve necessariamente dilatatarsi nella dimensione narrativa. Le sue fotografie arrivano allo spettatore mediate da un processo di distanziamento, fisico e simbolico. Quando, dopo la consacrazione della mostra al MOMA del 1963, e la monografia Diary of a Century, curata da Richard Avedon, Lartigue ha iniziato la sua attività su commissione, il suo lavoro si è naturalmente spogliato di quel carattere autoriale per cui oggi lo consideriamo. L’autorialità che gli si riconosce non riguarda infatti uno stile, una particolare cifra visiva, ma il costante lavoro di progettazione del passato.

Non a caso, oltre l’avvento del successo commerciale, gli interessi di Lartigue si sono sempre concentrati sull’archivio personale, come dimostra Françoise Tenant nel saggio L’autofiction d’un homme heurex. La sua pratica è un sistema di indagine e conoscenza del sé,  dove l’identità funziona come un architettura di relazioni. Qui, il processo di registrazione della memoria è centrale.­ In Lartigue, il legittimo interesse a cancellare, selezionare, alterare un dato qualsiasi del proprio vissuto è una forma d’arte, perché crede nella verità poetica, che è una verità metafisica, davanti alla quale i fatti che non vi si conformano, sono da ritenersi falsi.

È un giro di parole tortuoso, ma può essere utile tenerlo a mente, nella consapevolezza che oggi il Cloud è incapace di dimenticare. Significa che il discorso della memoria non si rivela nella somma della totalità dei ricordi, ma nella possibilità di ricondurli a un tessuto narrativo. Lo dimostra il fatto che Lartigue, prima di morire, abbia voluto realizzare l’ultima pagina dei suoi album. Al lettore il piacere di scoprirne la grazia.