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Gaia, è un’operatrice tanatoestetica che lavora nell’impresa di pompe funebri di famiglia. Il suo lavoro è quello di prendersi cura dei corpi dei defunti: li veste, li lava, li trucca. Lo fa con una familiarità sconcertante e in uno stato di semi-trance indotta oltre che dall’abitudinarietà dei gesti, che ripete quotidianamente, anche dal ritmo martellante della techno che ascolta con le sue cuffiette.

Un giorno però, accade qualcosa di inaspettato.

Prodotto da Inoslita film, Corpo e Aria è l’ultimo cortometraggio di Cristian Patanè, al suo quarto film da regista dopo Amore Panico (2017).

Il corto è una riflessione sull´’importanza di riappropriarsi della ritualità della morte per affrontare il lutto e curare il dolore, in un momento storico in cui con il Covid sembra essersi perduta.

Corpo e Aria (Holy care) parla infatti di qualcosa di apparentemente molto semplice eppure costantemente ignorato: ciò che accade al nostro corpo quando moriamo.

Il film indaga senza filtri, e con una grazia disarmante e luminosa, quel misterioso momento di passaggio che si colloca in uno spazio indefinito che fa da ponte tra la vita e la morte.

Per descriverlo, Patanè gioca sapientemente con la musica, i respiri e addirittura con i silenzi, nei quali si muove e vibra un intero mondo sospeso, ma soprattutto con le luci (Daniele Cirpì ha diretto la fotografia): «Con Daniele Ciprì abbiamo scelto la luce calda per raccontare i defunti, la luce fredda per raccontare tutto ciò che è al di fuori. Calda per il realismo della morte e fredda per accendere il lume dell’immaginario».

Liberatorio e catartico, Corpo e Aria è un film prezioso che solleva tante domande e intreccia tanti temi: la ritualità, le connessioni, la consapevolezza della perdita, la centralità del corpo che si fa simbolo di una vita intera e la pietà, riuscendo a parlare della morte tanto quanto della vita, e del lutto e del dolore tanto quanto di amore e di splendore.


Ciao Cristian, parlaci di come è nata l’idea di fare questo cortometraggio e di quale è stata la scintilla da cui tutto è scaturito

L’idea è nata mentre giravamo L’Ora, la serie tv di Piero Messina, io ero il suo assistente. Lui stava preparando la scena con Claudio Santamaria. Piero mi dice: vai a preparare il morto! La scena era semplice. Santamaria, che interpreta un giornalista, entra col suo collega dentro la camera di un obitorio per indagare su un omicidio. Inizio un processo di rilassamento con l’attore che interpreta il morto, dentro l’obitorio dell’ex ospedale Forlanini di Roma. La stanza era buia e le pareti trasudavano ancora il forte odore di morte, dopo decenni dal suo ultimo utilizzo. Alzo il braccio dell’attore, prendendolo dal polso, e lo lascio cadere sulla lastra di marmo fredda su cui è adagiato. È morto, mi dico, può iniziare la scena. Non appena chiamano il “motore”, sento quella sensazione tipica di quando dentro si è istillata un’idea. Infatti, la notte non chiudo occhio, scrivo, e il giorno dopo racconto l’idea a Piero. Poi accadde il lockdown. Si interrompe il set e torno in Sicilia per trascorre il momento della prima emergenza Covid. È stato un momento di intensa scrittura e ricettività quel periodo. Le immagini che la tv ci proponeva hanno avuto un effetto dolorosamente creativo nel mio inconscio. In quel momento si è accesa la mia memoria emotiva, ritornavano le immagini delle mie esperienze luttuose e risuonavano col momento storico. Così decisi di scrivere e poi di realizzare il corto, alla mia maniera rocambolesca e libera.

Tu e Selene Caramazza, che nel film interpreta Gaia, avete trascorso le settimane antecedenti alla lavorazione del film assistendo al rito tanatoestetico. Esserti preparato in questo modo ti ha aiutato a cogliere aspetti che non avevi considerato e che poi hai sviluppato nel film?

Sì, per preparare il film ho fatto alcuni colloqui con agenzie di pompe funebri, ma da subito ho sentito la necessità di dover provare io stesso quel mestiere. C’era un velo di mistero che non riuscivo a cogliere dai racconti e dalle descrizioni. Così ho iniziato a fare l’apprendista. La prima volta che sono andato in obitorio ho capito tante altre cose. E quindi ho riscritto il film più volte come un diario. La mattina mi svegliavo alle 4.30 per lavorare al mio apprendistato, tornavo a casa prima di mezzogiorno, 3 docce per levare l’odore e la sensazione di dosso, e poi ricerca tra articoli, libri, film.
Avevo capito che perlopiù il cinema mostra la morte come messa in scena, falsa o esagerata, ma mai con la lente del verosimile sul rigor mortis.
Io volevo filmare qualcosa che restituisse la veridicità della morte, perché solo grazie a quella si poteva giungere al lume dell’immaginario che stavo cercando. Il momento in cui tutto ha trovato una centratura di senso e d’immagine, è stato quando Selene Caramazza si è fatta convincere ad accompagnarmi in obitorio. In quei giorni le proponevo letture tematiche e ascolti di musica techno; erano quelle le uniche coordinate che potevo fornirle sul personaggio. È stato magico. Erano le 5.30 del mattino e aspettavo Selene di fronte la porta dell’obitorio. Lei arriva col suo classico outfit nero, una macchia nell’oscurità e una particolare energia addosso.
Non ha paura di quello che sta per fare e non c’è molto da dirsi. Entriamo. Si infila il camice bianco e la lascio precedere verso la stanza di tanatoprassi, sapendo che, nonostante la doppia mascherina, l’odore di quel luogo l’avrebbe immediatamente attivata. Io e Selene rimaniamo a guardare, mentre gli operatori svolgono il lavoro “normale” del mattino. Io conosco già tutto alla perfezione, lascio che Selene assorba quel momento scioccante, sacro e trasudante rispetto per la morte e per la vita. In una di queste preparazioni, succede il rigor mortis. Io chiedo a Selene di avvicinarsi e di vedere meglio cosa stia accadendo. Lei sa che quello è l’oggetto del nostro racconto. Il suo personaggio non esegue semplicemente la parte meccanica del rito. Selene aveva una concentrazione mistica: qualcosa stava cambiando radicalmente dentro di lei e si stava servendo del personaggio per canalizzare e registrare quella sensazione. Lei dopo qualche attimo torna un po’ più distante dal tavolo preparatorio.
Ci mette poco, prima di iniziare a battere il piede a terra, come un tamburo tribale. Guardo Selene: è in un altro mondo? No, è diventata Gaia. E lì è nato veramente il film. Magia.

Il titolo del film è Corpo e Aria: se il significato di «Corpo» è più che manifesto, quello di «Aria» è più evanescente, forse perché si presta a più interpretazioni, tu come lo spiegheresti?

Il titolo è sfidante come lo è il film nel suo contenuto. Rappresenta il Tutto e il Nulla. Durante la lavorazione del film, un indirizzo per tutti è stato quello di sottrarre e portare all’essenza tutto, dall’interpretazione alla luce e allo spazio, perché l’inquadratura avrebbe reso manifesto e simbolizzato l’immaginario. Un limbo di simboli. Il film non ha una storia, vuole raccontare un momento specifico, un’emozione unica e straordinariamente universale. Il corpo che diventa aria, appunto, utilizzando la metafora che biologicamente ci propone il rigor mortis. Noi spiriamo lentamente dal nostro corpo mentre ci preparano al funerale. In quel limbo in cui siamo, perdiamo le coordinate dello spazio e del tempo per far vibrare l’emozione del rito. Aria, quindi, come momento sacro tra la vita e la morte. Il film può avere molte interpretazioni, ma tutte hanno una matrice universale con cui dover fare i conti. Il pubblico risponde in maniera differente, ma in qualche modo il film parla ad un punto preciso della nostra intimità.

Si potrebbe dire che hai scelto di fare un film con una trama semplice ed essenziale ma profondo e denso di significati. Credi che la semplicità e l’essenzialità siano le chiavi per raggiungere il maggior numero possibile di persone?

In teoria è così, e non sempre, in pratica è così, e non sempre. Il cinema ti insegna che non ha regole. Se una cosa è bella e ti riguarda, c’è dietro un grande fattore di fortuna, anche se la sorte a volte pare cattiva. Dietro questo film c’è sacrificio e non lo dico con senso teatrale, è più una sfera che riguarda il sacro e la spiritualità di chi l’ha realizzato.

La tua opera, inoltre, rovescia alcuni stereotipi culturali legati alla morte, tabù, per la maggior parte. Affronti la morte come la fine del corpo biologico e lo fai in maniera quasi asettica e senza nessun filtro di giudizio. Si tratta di uno sguardo indubbiamente nuovo sul corpo: come è stato esplorare un territorio così poco conosciuto?Rappresentarlo ti ha concesso più o meno libertà di storytelling?

La verità è che io volevo solo riprodurre il rito tanatoestetico. Sono inciampato in tutto quello che dici tu e che ho cercato di descrivere come processo artistico. Sono scelte che mi si sono proposte durante il percorso di ricerca e che poi sono risultate nel film. E, come per tutti, all’inizio sembra di muoverti con un lanternino nell’oscurità. Poi le risposte arrivano, molte te le dà il pubblico. Inoltre non penso tanto a certe cose quando sei nella fase in cui stai facendo e capendo il tuo stesso film. Delle scene possono provocare, ma non avere quello come significato ultimo. La provocazione è un canale di accesso. Infatti, non credo che per un artista sia una vera ambizione sfidare gli stereotipi culturali, altrimenti non fai altro che alimentare un circolo di giudizio poco interessante. È il film che crea un effetto, non è l’intento che ha mosso il regista. È questione di alchimia, non di ragionamento, altrimenti sarebbe un film freddo. Il mio, nonostante le apparenze, non è un film “freddo”, guarda alle emozioni, infatti la luce è calda. Semmai può esserci un intento a sensibilizzare certi aspetti culturali legati al rito tanatoestetico che il covid ha ridotto nell’espressione. Posso dirti comunque che se possiedi un punto di vista vero e che utilizza una lente chiara, qualcosa riesce a smuovere negli spettatori, e ti dà anche l’impressione d’esser originale. Magari non lo è veramente, probabilmente ci sono film più belli e originali sul tema; l’importante è che qualcosa si muova dentro. Mi ha stupito il commento di alcune persone che hanno visto il film e che hanno dovuto aspettare giorni prima di poterne parlare. È strano, si crea una sorta di filo uterino nell’inconscio dello spettatore. Che meraviglia quando accade! È una fortuna! Lavorare con l’inconscio, a partire dal proprio, ti fornisce una libertà incondizionata se orchestrati con gli strumenti del cinema. Quale sarà il risultato, lo dirà il tempo.

I riti, il corpo, le connessioni, il lutto, la catarsi e in fine, la riconciliazione con la natura umana. Sono tutti temi toccati dal film, ma c’è, secondo te, uno di questi aspetti che emerge di più rispetto agli altri o che è in grado di contenerli tutti?

ll rigor mortis. È quello che accade al corpo quando si muore: un processo biologico ineluttabile e di straordinaria vivezza. In questa fragilità e forza della natura, c’è tutto quello che ci riguarda.

Il film si serve della fotografia di Daniele Ciprì, come è nata la vostra collaborazione?

Su questo mi concedo una digressione simpatica. La mia collaborazione con Daniele Ciprì nasce quando, a 13 anni, nella mia stanzetta ad Avola, metto in play un dvd pieno di film e scopro il cinema d’autore italiano. Mi era stato prestato da un amico, Nino, con cui ho girato i primi corti in adolescenza. Quel giorno vidi Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco e 8 1/2 di Federico Fellini. Ricordo che avevo una strana sensazione di stordimento: non ci avevo capito molto ma dentro di me era successo qualcosa di straordinario. Il sogno del cinema. Comunque, Fellini era già morto, Ciprì no. A 25 anni sentivo il bisogno di confrontarmi con un Maestro, perché quello che sapevo lo avevo imparato a mie spese, tra tentativi, errori e fallimenti, non avendo frequentato una scuola di cinema. Probabilmente cercavo qualcuno che validasse il mio percorso e potesse darmi dei consigli (la risposta è sempre: non ci sono scorciatoie!!!). Quindi nel 2016 invio a Daniele Ciprì la copia lavoro di un corto che avevo realizzato in 35mm; la passione per l’analogico è qualcosa che ci accomuna.
Vede il corto e mi invita ad un festival. Finalmente posso prendermi un caffè de visu con uno dei miei idoli. È vivo e ha un aspetto molto salutare, fortuna non da poco: beve abbondante caffè, fuma sigarette, parliamo di Carmelo Bene, Pasolini, di immaginario, e succede di utilizzare il siciliano alle volte. Il siciliano è una lingua che ti fa riconoscere e rende la conversazione più familiare, perché si porta con sé tutto il suo retaggio culturale antico. Insomma, lo scambio è bello e lì inizia un percorso di lavoro che si è trasformato in una sincera amicizia. La prima volta che abbiamo lavorato assieme con Ciprì è stato sul documentario “L’Abbraccio” di Davide Lorenzano, collega regista e giornalista, anche lui siciliano e mio coetaneo. Ero il produttore e Lorenzano il regista, avevamo 28 anni, e il primo giorno di set abbiamo realizzato che ci stavamo confrontando con un gigante: la sensazione che trasmette Ciprì è di scambio partecipe; quindi, si può solo che lavorare bene. È un grande artista, e questo lo sanno tutti, ma lo puoi comprendere veramente quando senti dall’umiltà con cui lavora, come gli artigiani pazienti e silenziosi. È quindi un dono per qualsiasi autore abbia l’occasione di un incontro così ricco come quello di un artista come Daniele, non solo perché è un grande professionista, ma soprattutto perché è un uomo pieno di passione che vuole condividere e contaminarla con quella altrui. Questo fanno i Maestri (se lo fanno), perché lo scambio è reciproco e vitale. Infatti Daniele è stato vitale per questo film, come tutti gli altri che hanno fatto il film.

Parlaci di chi ti è stato accanto a livello tecnico e organizzativo in questa avventura

Francesco Colella: co protagonista del film. La sua presenza nel film ha fatto risuonare grazia e poetica, come il colpo di fulmine fa per le storie d’amore. Che privilegio è stato poterci lavorare! Tutto il resto del cast: Francesca Rossi, Giuseppe Prete, Salvatore Arena, Daniela Mozzato, Giuseppe Manfrè. Con ognuno di loro ho avuto la possibilità di affrontare una preparazione fatta di studio sul corpo e della mente. Un materiale umano e artistico a disposizione inestimabile. Infatti, tutti hanno fatto un ottimo lavoro sul momento e sul personaggio. Non si vede, ma c’è tanto lavoro dietro! Nicoletta Cataldo: la produttrice, perché sa che un film non si abbandona mai. Sara Lombardi la parrucchiera, mi ha insegnato che i capelli recitano. Il suo pensiero è stato sostegno e leggerezza nel momento in cui la lavorazione mi gravava di più.Marija Tosic: la costumista, che il destino mi ha fatto incontrare in un momento confuso e fertile. Esserci conosciuti ci ha permesso di affinare un intuito e uno sguardo complice e particolare.Giulia Giorgi: il capo degli effetti speciali e del trucco, nonché produttrice associata, un carrarmato difficile da scalfire e che non si tira indietro di fronte alle difficoltà.Lady Maru e Bruno Falanga: i due compositori che hanno orchestrato battiti e silenzi.Denny De Angelis e Simone Usai: fonico e sound designer, che hanno fatto dei silenzi le parole di questo film.Mauro Rossi e Andrea Maguolo: montatore e colorista/vfx, che hanno trattato il materiale con rispetto e fede.Sabina Angeloni: scenografa, pazza, ancora non so come sia riuscita a fare quello che ha fatto con così pochi soldi e tempo.Raffaele Cirillo: assistente operatore di Ciprì, che si stava scoprendo già pronto per essere un operatore. Giulia Emiliani ed Enrica Pandolfi: reparto regia antitetico e baricentro di tutti noi.Massimo Lazzara e Leonardo Cassano: capo macchinista e capo elettricista, filosofi e artigiani del cinema come pochi. Tutti gli assistenti: tutti, anche quelli che sono venuti un giorno e si sono trovati in questo mondo.

Quale futuro sogni per Corpo e Aria?

Vorrei venisse proiettato in un cinema, tra 20 anni.

Corpo e Aria di Cristian Patanè è stato seleziano in diversi festival internazionali come il Santa Barbara Internazional Film Festival (2022), Sanfici – Santander Festival Internacionale de Cine Indipendiente (2022)
Bogoshorts Bogotà Short Film Festival (2021) e Corto Dorico Film Festival (2021).

Federica Passarella

Federica Passarella

Trovatrice di pezze a colore con una passione smodata per i mercatini delle pulci, l'estetica 70s e i letti sfatti.