Skip to main content

Ed eccoci qui con Tommaso Ragno, grande orgoglio del cinema e teatro italiano sulla scena internazionale.

Pugliese, classe ’67, Tommaso non ha davvero bisogno di presentazioni per il grande pubblico il quale, nel corso degli anni, ha assistito al crescendo della sua carriera di attore che quest’anno vive un momento particolarmente felice. È da poco sceso dal palcoscenico che ha condiviso con Massimo Popolizio per M, il figlio del secolo, ha quattro film in uscita, oltre a Nostalgia, presentato allo scorso Festival di Cannes, e una carriera televisiva floridissima (tra tutte, magistrali le sue interpretazioni nella serie Il Miracolo, scritta da Niccolò Ammanniti e prodotta da Sky, dal grande successo internazionale e Fargo “la serie più bella del mondo” secondo l’attore).

Nonostante il successo internazionale, Tommaso Ragno non si sente un fenomeno e non si è lasciato sedurre dalle lusinghe di Hollywood. In autunno l’attore tornerà in teatro per M, il figlio del secolo e nel frattempo ci godiamo la sua interpretazione del suo tragico antieroe Oreste in Nostalgia, talmente potente da meritare il Nastro d’argento.

Grazie per essere qui con noi oggi. Con Nostalgia è tornato sotto la regia di Mario Martone e a quella “fucina napoletana”, a cui è legato da quando, nel 1988, la diresse nella tragedia La seconda generazione in cui vestiva i panni di Oreste. Curioso come in Nostalgia si assista ad un’altra tragedia in cui interpreta di nuovo un altro Oreste. Cosa l’ha affascinata di più dell’antieroe di Nostalgia?

Il fatto che fosse difficile, che ci fosse un grado di difficoltà molto alto. Quando ti viene offerto un personaggio del genere in un film del genere con un regista come Mario Martone, senza dimenticare che avevo anche davanti un grande come Pierfrancesco Favino, tutto ciò ha una rilevanza notevole rispetto alla scommessa che Martone ha fatto su un attore non di origine napoletana, linguisticamente parlando. Lavorare con un grande professionista come Favino migliora sempre la tua performance, in termini non solo qualitativi, ma anche rispetto ai compiti a casa che uno fa per prepararsi, infatti ho dovuto lavorare non poco sulla lingua napoletana. Non c’è stato niente di improvvisato, questo ci tengo molto a dirlo, non c’è un estro scollegato dallo studio. Quella difficoltà mi preoccupava all’inizio, Napoli è piena di grandi attori, ma rispetto poi al film ho capito piano piano preparandomi che c’era una scelta armonica dietro. Il personaggio ha una caratura simbolica che non è soltanto legata alla lingua, ma anche ad una dimensione mitica. Il titolo Nostalgia è già di per sé molto evocativo e comporta tante valenze, come il fatto di far esprimere un personaggio che è consapevole di essere dentro ad un immondezzaio. Lui stesso ad un certo punto dichiara di essere “il re di quella monnezza”, questo evoca cose molto complesse legate al personaggio. Anche il fatto di mostrarlo prima di spalle, poi di tre quarti e poi via via sempre di più e si comincia a capire che porta con sé un mistero. Tutto ciò è dovuto a come viene impostata la regia, perché un film è sempre del regista.

Nostalgia è stata girato nel rione Sanità, che Lei ha definito una sorta di Varanasi, una “città fatta apposta per sparire”. Ci può spiegare cosa intende?

La mia sensazione quando ho conosciuto questo posto e ci ho lavorato, ovviamente per il tipo di lavoro che faccio che è a contatto con le persone e con i luoghi veri, era di stare in una sorta di oriente. Quando dico Varanasi intendo dire la punta estrema di un luogo nell’India che comprende in maniera spiccata la vita, la morte e la loro coesistenza insieme. È un posto la Sanità in cui si ha la sensazione di essere dentro un’altra città all’interno della città di Napoli. Quando ci sono andato, qualche mese prima di iniziare le riprese, passeggiando semplicemente proprio per rendermi conto di cosa quel luogo emanasse, ho avuto l’impressione di stare dentro ad una città dove è molto facile nascondersi e che la struttura di un vero e proprio labirinto, anche temporale non soltanto geografico. Il fatto che Napoli sia una città estremamente stratificata, è una città che ha sottoterra le catacombe ad esempio, è una cosa che nel film si vede ed è espressa molto bene e la Sanità è un labirinto temporale che si presta bene alla natura fantasmatica di questa città, creando fantasmi anche laddove non ci sono. Tutto ciò è estremamente evocativo perché senti di essere in un luogo molto antico e questo è vero in tutta la Napoli, ma in particolare in questo luogo. Ecco perché la città è essa stessa un personaggio fondamentale; riprendendo le parole di Martone, si è associata spesso la figura di Oreste alla figura del Minotauro al centro del labirinto. Questo accenno a una figura mitologica, e tutto quello che essa evoca, è stato uno dei riferimenti su cui si è basato il mio lavoro sul personaggio, come trovare alla fine del labirinto il mostro, il re di quella monnezza, consapevole di esserlo perché la sua condizione è frutto di una scelta estrema. L’attore ha una grande fortuna, come dice Robert de Niro, che è quella di non pagare le conseguenze delle scelte fatte dal suo personaggio, tuttavia il coinvolgimento in questo tipo di storie è molto forte perché mettere a rischio qualcosa di sé è possibile quando si ha davanti una serie di cose che scatenano la tua curiosità e la mandano in luoghi che normalmente non esploreresti. E questo è un grande privilegio perché alla fine quello che compone un film è una serie di cose che non si riducono solo a tua interpretazione, ma la messa in gioco di tanti aspetti dell’umano.

A breve sarà di nuovo nelle sale con un altro film ambientato in un meridione oscuro e criminale: Ti Mangio il Cuore, ispirato all’omonimo libro-inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini incentrato sulla Quarta Mafia, l’organizzazione meno conosciuta tra quelle criminali in Italia. Può parlarci di questo progetto?

Non posso parlarne molto perché non si sa ancora quando uscirà, quello che posso dire, senza fare troppi spoiler, è che un’altra fortuna del mio lavoro è stato incontrare Pippo Mezzapesa e lavorare con lui in un territorio che è quello dove io sono nato, essendo di origini pugliesi. Qui ho potuto praticare la mia lingua di origine che, anche se in realtà non l’ho mai parlata nella mia vita, è un orizzonte linguistico che conosco molto bene. Questo film mi ha permesso di scoprire una dimensione che non conoscevo, quella della Quarta Mafia, la quale ha delle strutture e dei codici di comportamento efferatissimi e che si manifestano in una dimensione molto arcaica e bestiale. Uso questi termini perché c’è qualcosa di molto antico in queste faide tra famiglie e nei comportamenti che sono quasi al limite tra l’umano e l’animale, tanto che le due cose diventano quasi indistinguibili ed è molto difficile tracciarne i confini. Quello che mi sento di poter dire è che il lavoro è stato molto intenso, sia per i luoghi dove abbiamo girato che per la passione e per la precisione con cui Pippo Mezzapesa ha lavorato. Anche noi nativi del posto, che abbiamo una certa abitudine a quel dialetto, avevamo comunque un coach che ci seguiva e ci aiutava ad aggiustare il tiro, non solo della pronuncia ma anche del senso. Nulla è stato lasciato al caso.

Recentemente ha annunciato che presto sarà protagonista di un’opera prima, scritta e diretta da Alessandro Roja. Ci può anticipare qualcosa?

Su questo non posso dire proprio nulla e non soltanto per scaramanzia. Mentre ho potuto accennare qualcosa su Ti Mangio il Cuore, di questo progetto posso dire solo che sarà una bella prova e che sono veramente molto felice di poter fare questo film. La verità è che con questo lavoro ogni volta sembra che non lo farai mai più perché ha una forte componente di precariato che è insita nel lavoro stesso. E quindi, ogni volta che mi viene data la possibilità di poterlo fare è come se fosse la prima. Credo che sia il mestiere più bello del mondo, per quanto richieda molto.

Oltre al cinema, il suo altro grande amore è il teatro. Un amore ricambiato, visto che è reduce dal grande successo di M, il figlio del secolo, per il quale tornerà in scena a settembre a Milano. Come è stato risalire sul palco dopo una pausa di 5 anni?

È stato molto particolare rispetto al fatto che ci sono stati 2 anni in cui siamo tutti spariti dai marciapiedi, in particolare tutte le arti sceniche che hanno un contatto immediato col pubblico hanno subito una pausa forzata. Questo spettacolo è stata una cosa colossale, mastodontica, per il periodo in cui è stato fatto, perché eravamo ancora sotto covid: il teatro è stato usato in tutti i suoi aspetti, dalle grandi scenografie alle piccole botole, ma soprattutto sono state necessarie tante interpretazioni con un coefficiente di difficoltà molto alto per riuscire a portare una storia legata ad un personaggio, Mussolini, che poi in realtà è l’Italia ed è anche una parte importante della nostra storia e identità, che ha plasmato ciò che è venuto dopo la fine di quel periodo terribile. Riuscire a riportare tanta gente a teatro, perché abbiamo avuto sempre tutto esaurito sia a Milano che a Roma, non era scontato. Il desiderio di teatro e di esperienza dal vivo è molto diversa da quella del cinema, sono davvero due cose differenti. Lavorare di fronte ad un pubblico che è contemporaneamente insieme a te è diverso. Qui non c’era la pretesa di insegnare nulla, non siamo Rai Storia, ma eravamo all’interno di uno spettacolo teatrale in cui è stato molto importante ritrovare gli spettatori. La compagnia ha lavorato sotto covid con 18 attori, una decina di tecnici e abbiamo vissuto le prove con anche dei casi positivi, tra cui io stesso. Essere riusciti a portare in scena questo spettacolo in quella situazione assolutamente non normale, è stato miracoloso.

Un altro aspetto della sua carriera di attore sono le sue interpretazioni in serie tv importanti (ricordiamo tra tutte Il Miracolo e Fargo), ma recentemente ha dichiarato che quella del teatro è un’esperienza spazio-temporale che non ha niente a che vedere con la visione televisiva. Soprattutto durante la pandemia, ci siamo abbuffati di serie tv, anche bellissime, ma che mancano di “cosalità”. Cosa intende dire?

Noi siamo esseri che sono fatti per la vicinanza. Io sono una persona che è nata, cresciuta e si è formata nel secolo scorso. Ho conosciuto lo sviluppo della mia educazione sentimentale e fisica in un tempo in cui non potevi mettere un avatar al tuo posto come può succedere oggi. L’esperienza del corpo, che si può vivere con lo sport e con il teatro, è un’esperienza che ha a che fare anche con la resistenza della materia che ci circonda. È lo stesso principio di chi corre sul tapis roulant e chi corre nel parco all’aperto. Chi pratica questa attività fuori sa che deve fare un’attenzione isometrica e una ricerca di equilibrio costante; cognitivamente parlando si tratta di un’attività che richiede un impegno maggiore. La cosalità è proprio questo: in condizioni in cui non abbiamo una resistenza posso sentirmi quello che voglio, se invece devo spingere e mettere il mio corpo a confronto con una pressione generata da un meccanismo di azione e reazione, svilupperò un altro tipo di attenzione. È il rapporto con il pubblico che fa la differenza, il teatro ha estremamente a che fare con l’umano proprio perché non si ha, come nel cinema, tutta una serie di cose che sono dichiaratamente artificiali. Anche il teatro è artificio, ma inizia e finisce con l’umano, con te, con le parti, non hai prolungamenti bionici. Se quell’attesa magica che crea uno spettacolo viene delusa, la reazione è molto più pesante di quella che si può avere davanti ad un film non del tutto riuscito, perché la mia presenza è contemporanea a quella di chi mi guarda, nello stesso tempo e nello stesso luogo. La delusione si vede e si sente subito senza gli artifici che possono sostenere un film, come la musica, le luci, il colore e il montaggio. Ci sono tutta una serie di elementi artificiali che migliorano un film che fanno parte della sua natura specifica, nel teatro invece la presenza dal vivo comporta un impiego di energie nettamente superiore perché il pubblico è lì con te e lo devi tenere dall’inizio alla fine. Ti devi investire in una maniera completamente diversa. A teatro inoltre puoi controllare quasi tutto di quello che fai, mentre invece un film è per lo più del regista, soprattutto per quanto riguarda l’effetto della tua interpretazione, perché ciò che fai verrà poi post-prodotto, montato, rielaborato, rivisto. Un film inizia la sua seconda via al montaggio. Lo spettacolo teatrale invece ha una fase iniziale di prove e poi si “aggiusta” costantemente con il pubblico.

Nonostante il grande successo, non solo italiano ma anche a livello internazionale, non si è fatto lusingare da Hollywood. Come è stato lavorare in una produzione come Fargo?

Grazie per aver detto che non mi sono fatto lusingare da Hollywood. In realtà l’esperienza di Fargo è stata enorme per quanto mi riguarda. Era già una cosa che amavo, perché avevo visto le serie precedenti, e per me è stata un’esperienza dal grandissimo significato, a partire proprio dalla qualità della scrittura e poi di tutta la produzione. Una grandissima esperienza.

Cosa si sentirebbe di consigliare a un giovane sé stesso se dovesse cominciare la sua carriera oggi? E cosa è importante sapere prima di investire la propria vita nel mestiere dell’attore?

Per me è molto difficile dare un consiglio perché negli ultimi anni c’è stato un fortissimo cambiamento e non solo nella percezione di questo mestiere. Si è velocizzato tutto tanto che ormai il mondo sembra essere alla portata di un click, ma sinceramente non so quanto questo abbia giovato. Sicuramente non mi metterò a dire che era meglio ai miei tempi perché questo è il tempo che vivo ancora, credo però che, essendo il mio un tipo di lavoro che si fa insieme, io abbia avuto la fortuna di poter lavorare a lungo, anche nell’ambito delle case teatrali, con le stesse persone in molti spettacoli e questo ti permette di sviluppare le tue capacità e confrontarti con chi ha più esperienza ed è più bravo di te. È uno scambio incredibile, sono stato veramente fortunato e oggi non so, riferendomi all’Italia, come sia diventato questo mondo. Fare l’attore è un lavoro, non è un modo per diventare famosi fine a sé stesso. Mi sento quasi noioso mentre lo dico, ma a me è stato insegnato ed io ho voluto imparare e far crescere le cose apprese in questo mestiere nel tempo. Ecco io gli direi questo, di avere pazienza. Fare l’attore è un lavoro che conosce degli alti e bassi e bisogna pensare che anche la sfortuna può avere un gran ruolo all’interno di questo tipo di carriera. Non si può sapere da dove arriverà la tua fortuna, fare della recitazione un lavoro è anche un cercare di coltivare una vicinanza all’umano che non va assolutamente persa. Per esempio qualche giorno fa è scomparso Peter Brook. Quando fece il Mahabharata, uno spettacolo che durava 9 ore ispirato ad un poema indiano paragonabile alla nostra Iliade e Odissea insieme, nonostante ci fossero molti bravi attori che lui stimava, lui aveva bisogno di un tipo umano particolare per poter affrontare quell’esperienza. Questo è un lavoro fatto di compromessi, non sempre riesci a fare quello che si vuole, nel senso che tutti avrebbero voluto lavorare con Peter Brook, ma anche se non si è riusciti a farlo è importante fare proprio l’insegnamento che si può ricavare da un’esperienza del genere, cioè che si tratta di un lavoro che non capita sempre di poter fare e che ci possono essere dei momenti in cui le cose non vanno per il verso giusto. Ci vuole quindi tanto sacrificio, tenacia e pazienza. Non ho nulla contro la ricerca del successo, inteso come diventare famosi, ma per me il vero successo è continuare a fare e vivere di questo lavoro.

 

Credits:

Photo: Erica Fava
Styling: Allegra Palloni
Assistant: Sara Meconi
Post: Angela Arena