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Cuore e anima a metà tra Italia e Giappone. Nata con la musica nel sangue, figlia di due cantanti lirici. Jun Ichikawa è un’artista poliedrica, attrice ma anche doppiatrice. Protagonista di “Addio al nubilato 2”, ora su Amazon Prime, e di “Non credo in niente”, progetto di cinema indipendente in giro per l’Italia, Ichikawa ha raccontato sé stessa, le sue origini e il suo lavoro a Spaghettimag in un’intervista a cuore aperto.

Giapponese, ma naturalizzata italiana. Ha una carriera da attrice ma la sua prima passione è stata la danza classica. È così? Ci racconti di più sul suo percorso.

Per raccontare il mio percorso artistico devo necessariamente partire dalla mia infanzia: io sono nata in Giappone, ma i miei genitori si sono conosciuti a Roma per via della loro professione, il canto lirico. Il mio primo istinto artistico da bambina è stato il canto: a dieci anni mio papà mi fece fare una lezione di solfeggio, che però non diede i risultati sperati. Mi consigliò quindi di prendere un’altra strada, traumatizzandomi ma in realtà proteggendomi (ride). Iniziai dunque a praticare diverse attività, tra cui la danza classica, che mi permise di raccontarmi attraverso le movenze fisiche. Ho dovuto smettere di danzare durante l’adolescenza, a causa di un disturbo alimentare accentuato dall’assenza di mia madre, che era in Giappone a prendersi cura di mia nonna e che ha causato la mia costante ricerca di attenzioni. Volevo che qualcuno mi “salvasse” e mia madre lo ha fatto davvero, portandomi in ospedale e permettendomi di affrontare un percorso di rinascita psicologica. Oggi so che tanti ragazzi soffrono di questo problema, che molto spesso deriva da carenze di affetto e mancanze. In questo quadro, la recitazione mi ha dato la possibilità di osservare e studiare gli altri, di sentirmi parte di un gruppo, oltre che di esprimermi. Premettendo che fino ai quindici anni ho avuto un accento giapponese molto marcato e che per questo sono stata spesso presa in giro, ho iniziato a praticare recitazione per migliorare il mio vocabolario ed avere un bagaglio linguistico. Per me esprimermi è stato molto difficile, perché mi scontravo con una cultura vocalmente espressiva ed istrionica, diversa da quella silenziosa e poco ostentatrice del Giappone.

Ha recitato in numerose rappresentazioni di teatro, quali Agamennone e le troiane dove ha interpretato il ruolo di Cassandra. Ma quando è avvenuto l’esordio sul grande schermo?

Sono approdata sul grande schermo quasi per gioco. Mentre recitare in teatro era un passaggio necessario per poter essere “accettata”, il cinema mi divertiva. Osservavo, ascoltavo, giocavo. A 19 anni feci un provino come comparsa per un film girato da Ermanno Olmi, che però non diede risultati. Dopo qualche mese, fui chiamata da una produzione che mi chiese se fossi disponibile a fare da modella per un truccatore, durante le riprese di un film. Scoprii solo dopo che si trattava del film di Olmi. Furono proprio truccatori e parrucchieri a notarmi, dicendomi che fossi perfetta per il regista. Nonostante non mi avessero ancora fotografata, il giorno dopo mi chiamò Olmi per un provino su parte. Ricordo che io ero molto titubante: il casting director mi spiegò dove dovevo guardare e poi cominciò un racconto che rammento ancora oggi, fatto di immaginazione e interpretazione. Per me non fu facile entrare nella parte di una moglie che aveva appena perso il marito, scossa da diversi sentimenti. Ricordo che mentre provavamo entrò nella stanza Ermanno Olmi. Mi guardò e cominciò a imitare i movimenti che stavo facendo io per il provino. Alla fine della scena si era creato qualcosa di magico: lui applaudì e mi fece i complimenti. Mi chiese: “Sei libera?”, “Sei fidanzata?”, “Lui è geloso?”. Continuò: “Ti piace dominare o essere dominata?”. Io risposi “Entrambe”. Fu così che mi scelse.  La produzione mi chiamò dopo qualche giorno invitandomi a una festa all’Hotel de Russie per il film: non ricordo molto, se non che le persone mi facevano complimenti ed Ermanno Olmi mi presentò dicendo “Lei è la mia protagonista”. Da lì è iniziata la mia storia d’amore col cinema. Io ho sempre augurato a tutti gli attori di poter lavorare con registi come Olmi. Tutti noi abbiamo bisogno di figure che possano regalarci un’esperienza e fungere da punti di riferimento. Per me lui è stato un maestro. Olmi girava spesso in prova, non forniva la sceneggiatura ma buttava gli attori in scena, ricreando una forma di freschezza che apparteneva ad un cinema d’altri tempi. Ricordo che mi ha dato tre insegnamenti fondamentali. Intanto, di fidarmi sempre del regista e delle persone con cui lavoro; successivamente di rispettare le maestranze, senza le quali un film non può avere luce. Infine, di non guardarmi mai al monitor. Sai, noi attori siamo pieni di insicurezze! (ride).

Il suo lavoro di attrice si è affiancato poi a quello di doppiatrice. Qual è stato il personaggio più complesso in questo caso, da doppiare?

Il doppiaggio è nato come una necessità. Dopo aver lavorato con Olmi, che solitamente non girava in presa diretta ma doppiava tutto, mi sono resa conto che volevo imparare a lavorare sulla mia voce. I doppiatori sono soprattutto attori, danno la propria voce ma anche tutto il corpo. Ho avuto la fortuna di conoscere presto maestri come Francesco Vairano, Carlo Valli e Rossella Izzo, avendo l’onore e il piacere di poterli ascoltare, di vedere come operavano. Il primo doppiaggio che ho fatto è stato Lost in Translation, dove interpretavo due ruoli, tra cui la signora Kawasaki. È iniziato così questo percorso, che tutt’oggi seguo e adoro. Il doppiaggio è molto diverso dalla recitazione: il direttore del doppiaggio non ha tempo, spiega frettolosamente e fa guardare la scena una volta sola. Di conseguenza adattare la propria voce, essere in sync, è una sfida. Tra i ruoli difficili che ricordo c’è cho chan. Ero diretta da Vairano, bravissimo ma anche tosto, diligente e preciso. Io interpretavo un personaggio più piccolo di me, dovevo cambiare e calibrare la mia voce. Un altro film è “Eternals”, ovvero la prima volta che mi capitò di doppiare la protagonista di un film. Il senso di responsabilità mi ha portato ad avere paura. Oggi mi capita di doppiare anche personaggi non orientali e questa è una soddisfazione enorme.

 

Look:

Body MIMÌ ET MAMÀ
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Gonna BLACK CRISTAL LATEX
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Scarpe MY CHALOM
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Bracciale MARIA PATRIZIA MARRA
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Ci sono dei registi con i quali le piacerebbe particolarmente lavorare

Lavorerei volentieri con Garrone, Sorrentino, Muccino. Fino a qualche anno fa il cinema italiano veniva criticato, mentre oggi abbiamo tantissimi registi riconosciuti in tutto il mondo. Molti e tutti molto bravi, ognuno con il suo occhio e la sua esperienza.

La sua carriera è stata gratificata dall’arrivo di numerosi premi, come il Premio Sciacca, il premio Gran Galà dell’arte, ed altri…se si guarda indietro, come vede il suo percorso? E cosa ancora sente di dover raggiungere?

Per me il premio è un punto d’inizio: a causa o grazie alle mie fattezze non mi sono mai sentita arrivata, ho sempre dovuto riiniziare da capo. La multiculturalità nel mondo artistico è difficile da applicare. Mi sono scontrata diverse volte, anche in sede di casting, a rivendicare un’italianità che non avevo, perché riuscivo ad essere collocata solo come attrice orientale. Quando ho vinto il provino per RIS, un ruolo italiano al 100%, non potevo crederci. Era la prima volta che un attore orientale faceva parte dei protagonisti di una serie italiana. Oggi mi sento di essere sulla strada giusta, che percorro studiando e lavorando. È molto importante essere diligenti e lavorare tanto, è l’unico modo per avere risultati. Quando mi chiedono che personaggio vorrei interpretare, oggi rispondo che vorrei essere parte di “storie necessarie”. Vedo tanta violenza nel cinema e nelle serie e mi chiedo se ne abbiamo davvero bisogno. Mi ricordo di quando Olmi mi disse che noi tutti necessitiamo di favole. Forse fanno sognare troppo, ma sognare è proprio ciò di cui abbiamo bisogno. Recentemente è uscito al cinema il mio film “Non credo in niente”. Girato durante il lockdown, in tredici giorni nel giro di nove mesi, si tratta di un esperimento del regista Alessandro Marzullo. Il film racconta la frustrazione di alcuni artisti trentenni che non hanno possibilità di esprimersi perché la loro arte non viene riconosciuta e quindi sono costretti a svolgere lavori serali come hostess o cameriere. Direi che questo film narra la crudezza di una vita notturna romana, dove le persone hanno difficoltà a credere in qualcosa perché gli è stato negato tutto. A me piacerebbe dunque far parte di storie che possano cambiare qualcosa, influenzare la cultura. Abbiamo passato anni bui in cui abbiamo smesso di relazionarci l’uno con l’altro. Siamo diventati dipendenti dai cellulari e stiamo perdendo il senso della realtà. Ci sentiamo così impegnati che spesso ci dimentichiamo di passare del tempo con chi amiamo. In Giappone è stata costruita una stazione del treno dove c’è solo la vista e non prendono i telefoni, l’unica cosa che si può fare è osservare la natura e aspettare il treno. Penso che sia un insegnamento fondamentale, che fa capire quanto sia importante respirare e stare a contatto con la natura e le persone.

Dopo il grande successo del primo capitolo, torna Addio al Nubilato 2, insieme ad attori come Laura Chiatti e Chiara Francini, diretto da Francesco Apolloni. Lei sarà una delle protagoniste della serie. Com’è stato lavorare a questo progetto televisivo, e rapportarsi a colleghi con un importante carriera? E cosa le rimarrà di questa esperienza?

“Addio al nubilato 1” nasce durante il lockdown: il cinema sembrava finito ma la produzione ha scommesso su questo progetto che si è rivelato un esperimento vincente. Sono due secondo me gli elementi che hanno funzionato: il senso dell’amicizia e la vita. Il regista Francesco Apolloni ha un talento nel creare storie bellissime e fare scouting, individuando i gruppi giusti con cui lavorare. Ha riunito quattro donne molto diverse tra loro, ma allo stesso tempo molto forti. Io, Laura Chiatti, Chiara Francini e Antonia Liskova abbiamo subito avuto una sintonia a pelle che ci permette di essere legate ancora oggi. Questa amicizia genuina traspare nel film ed è ciò che ha portato al successo. Spesso noi donne pensiamo di non essere capaci di fare solidarietà ma in realtà abbiamo solo paura di farlo: Il legame tra donne è fortissimo, se siamo unite nessuno ci può abbattere. In “Addio al nubilato 2”, Eleonora (Antonia Liskova) viene lasciata all’altare e noi la seguiamo in un pazzo viaggio on the road perché lei vuole seppellire suo padre. In questo film si parla soprattutto di maternità, infatti anche il mio personaggio è incinta. Maternità oggi vuol dire diverse cose: puoi essere materno perché hai un animale, un progetto, un figlio di sangue. Maternità è famiglia e la famiglia può essere di ogni tipo. Apolloni ha messo in questo film molto di sé e della sua storia personale di orfano adottato da una madre che l’ha amato tantissimo. Allo stesso modo, c’è molto di me: nel primo film ho perso mia madre, nel secondo sono diventata madre. È stato come se mia madre mi avesse passato il testimone per diventare madre a mia volta. In questo film ogni personaggio si rapporta alla maternità e al bambino che ha dentro: le protagoniste riscoprono loro stesse e imparano, attraverso i bambini, a vivere secondo un punto di vista diverso. È una favola che spero gli spettatori possano apprezzare genuinamente, ritornando anch’essi un po’ bambini.

 

Team:
Creative Direction & stylist @muccinoamatulli
Photographer @gioiamaruccioph
Stylist assistant @giulia.laface
Hair&Mua @isabellaavenali

Anna Quirino

Anna Quirino

Nata a Bari, vive a Milano. Giornalista e copywriter laureata in Economia e Gestione dei Beni Culturali e dello Spettacolo, con un master in Fashion Management. Creativa, determinata e anticonformista. Collabora con svariate testate fashion & lifestyle e lavora come Copywriter per aziende fashion & beauty.